Una storia slowcore

Non ricordo esattamente il momento in cui il mio futuro coinquilino mi prestò I Could Live In Hope dei Low.
Ricordo però che in quel periodo il 90% dei miei ascolti era costituito da rock anni 60-70, e che avevamo messo in piedi un'onesta band con cui suonavamo solo canzoni dei Radiohead.
All'inizio i Low proprio non li avevo capiti. Anzi, avevo quasi fatto fatica ad ascoltare quell'album per intero, così lento, così vuoto. Una notte però mi stesi sul letto, cuffie in testa, e I Could Live In Hope nel lettore. Successe qualcosa.
Capii.
Non era vuoto: era essenziale. Quell'album è l'essenza stessa del rock. I Low avevano tolto ogni orpello dallo scheletro delle canzoni, per rivelarne la più intima consistenza.
Da allora mi dedicai ad una ricerca matta e disperatissima, volevo sapere chi altro aveva creato musica prediligendo i sussurri alle urla, le melodie ai rumori, la quiete alla fretta, il meno al più.
Scoprii il lato folk dello slowcore (Red House Painters, Rivulets, Boduf Songs) ma anche quello più psichedelico (Jessica Bailiff, Coastal, Mazzy Star).

Da qui a mettere in piedi una band slowcore (HeLazy) il passo fu breve. Ma breve fu anche la vita di questo gruppo, perché l'Università finisce e bisogna tornare all'ovile.
Così il progetto solista Lullabier (che prende nome da Lullaby, la canzone più bella di I Could Live In Hope) nacque per noia e per necessità, perché ero rimasto solo con la mia chitarra.

Quando la Silber Records, che aveva pubblicato anche l'album solista di Alan "Low" Sparhawk, mi contattò su Myspace per pubblicare una mia canzone, mi commossi. Un'etichetta che ammiravo, sentendo le mie canzoni registrate quasi per scherzo, mi voleva. Cominciai a credere davvero che tra gli addetti ai lavori Lullabier potesse essere credibile.
Mi misi a registrare un sacco di canzoni, tante da riempire due album (uno ben fatto, Verità Rivestite D'ombra, e uno pieno di scarti, Mai Nulla Di Troppo), e a chi mi chiedeva quando avrei smesso di suonare una musica tanto pallosa, rispondevo "quando suonerò con Rivulets appenderò la chitarra al chiodo".

E una bella botta di autostima arrivò nel marzo 2011, quando suonai proprio con Rivulets. Il concerto andò discretamente male, impegnato com'ero a riflettere sull'assurda circostanza che Rivulets stava ascoltando Lullabier. Pochi giorni dopo aprii anche il concerto di Jessica Bailiff e Boduf Songs.
Ovviamente, non avevo alcuna intenzione di appendere la chitarra al chiodo, e pensavo "quando avrò suonato coi Low smetterò davvero", puntando ad un evento così inverosimile da permettermi di ammorbare la gente con canzoni slowcore per ancora molto tempo.

E poi è arrivato maggio 2013.
Ho suonato coi Low.
A fine concerto ho cercato qualche opinione su Twitter: un tizio mi ha definito "un gran figo", un altro ha scritto "raramente ho sentito cose peggiori". Divide et impera.
In realtà, poco importa.
Ho conosciuto i Low. Hanno suonato una canzone su mia richiesta nel privato del camerino, solo per gli occhi miei e dell'Ire. Alan Sparhawk ha tra le mani i miei album, che peraltro mi ha detto di aver già ascoltato su internet (gli erano piaciuti). Mi hanno seguito (e twittato) mentre ero sul palco.

Può esserci un lieto fine migliore per una storia slowcore?


P.S.: forse non appenderò la chitarra al chiodo ancora per un altro po'.